da Halcedo » sabato 10 maggio 2014, 12:14
Io posso inviarVi a proposito di quel terribile evento la testimonianza di Teresa Micali Caldarera, moglie dell’avv.Grand’Uff.Emanuele Caldarera, Marchese di Menta e Raulica, Procuratore Generale presso la Corte di
Cassazione, all’epoca del sisma Giudice del 3° mandamento, scritta nel 1914 per tramandare la memoria di quella tragica notte agli eredi, che gelosamente hanno custodito il ricordo, oggi gentilmente concesso dalla nipote, sig.ra Maria Teresa Zuffo Ballo.
La famiglia Caldarera abitava in via Bisalari, nei pressi dell’attuale via Università; di antichissima nobiltà, era originaria di S. Angelo di Brolo, dove possedeva un feudo, concesso, insieme al marchesato, da Federico II nel 1264.
L’autrice della testimonianza, appartenente alla famiglia Micali, originaria di Roma, con il marito continuò a vivere a Messina, ed ebbero tre figli, Ugo Caldarera (il bambino del racconto) che divenne magistrato di Corte di Cassazione e Grandufficiale della Repubblica; Arturo Caldarera, ingegnere, colonnello del Genio Marina Italiano, che partecipò alla campagna d’Africa, e Matilde Caldarera, che sposò lo spedizioniere Giuseppe Zuffo.
Emanuele Caldarera fu magistrato del Regno, collaborò con il prefetto Mori negli anni 30 e fu uno dei primi giudici ad avere la scorta per il suo impegno contro la mafia.
Teresa ed Emanuele Caldarera morirono nel 1937.
"Eravamo alla fine di dicembre del 1908 ed una tristezza insolita opprimeva l’animo nostro, quasi avessimo presagito la sventura che doveva colpirci. Infatti, passammo il Natale quasi con le lacrime agli occhi e tanto io che mio marito non sapevamo spiegarci la ragione. Arrivammo così alla sera di domenica 27 dicembre in cui alla solita ora andammo a letto. Nella nostra stessa camera, in un lettino chiuso, poco distante dal nostro, dormiva Ugo, l’unico figlioletto di ventun mesi che allora avevamo.
Alle quattro di quella notte avendo avuto il bambino un po’ di tosse si svegliò, ed io, cosa strana, contrariamente alla mia abitudine di essere un po’ pigra nel saltare dal letto, quasi mi fossi sentita spingere da una forza irresistibile, misi subito i piedi a terra per andarlo a prendere, malgrado mio marito mi consigliasse di lasciarlo riaddormentare nel suo lettuccio più libero.
Lo coricai nel nostro letto, aggiustai la lampada che tenevo sul mio comodino ed alle 4 e mezza ci riaddormentammo tutti. Quand’ecco che alle 5 e 20, ora tremenda che poi sapemmo, in cui tutti gli orologi rimasero fermi allo stesso e che mai si cancellerà dalla nostra mente, una terribile scossa di terremoto di cui al principio se ne capì subito l’entità, sentendosi addirittura rigirar sossopra, ci svegliò di soprassalto. Mai però potevamo prevedere, anche se un Angelo del Cielo ce lo avesse predetto, che in 55 secondi Messina non doveva più esistere perché fu l’ultima fase del Terremoto vorticoso che la distrusse completamente.
Al cominciar della scossa ad un tratto ci sorprendemmo in mezzo al letto e mio marito abbracciandomi mi disse: Non aver paura, Teresina, finirà presto, ed io feci lo stesso col bambino che tenevo dalla mia parte cingendogli il collo col braccio. Nel tempo stesso che facevamo tale mossa e che mio marito aveva appena finito di proferire le sue parole sentimmo un cupo rumore, un crepitar di macerie, una densa polvere che ci otturava la gola e ci offuscava gli occhi, mentre un peso enorme ci schiacciava privandoci dei movimenti. Nelle fitte tenebre in cui restammo non potevamo renderci conto esatto di ciò che accadeva, e della posizione in cui ci trovavamo, altro non si avvertiva che il girare vertiginoso della terra ed un crollare continuo di pietre, calcinacci, canne e legni che ci cadevano addosso.
In quel terrore, in quei momenti di angoscia indicibile, in cui capimmo che la casa crollava ed aspettavamo di sentirci ancora sprofondare nell’abisso, io ebbi solo la forza di invocare Iddio e la SS. Vergine di Pompei alla quale promisi che se ci avesse liberati da così orribile morte, le avrei portato al suo Santuario a Pompei i miei orecchini di brillanti.
Gridavamo continuamente al soccorso tanto io che mio marito, e colla certezza che fosse stata solo la nostra casa a crollare, chiedevamo aiuto dai vicini, chiamavamo a squarciagola la nostra brava cameriera, che poverina è stata disgraziatamente tra le vittime, ma nessuno rispondeva alle nostre invocazioni. Ci meravigliava tanto il silenzio e non potevamo frenare un forte risentimento all’altrui egoismo, ignari dell’immane catastrofe. Purnondimeno, speravamo che da un momento all’altro avremmo sentito accorrere i pompieri colle torce a vento, i soldati, i carabinieri, tutte quelle perso- ne insomma, che in simili casi,come sempre si è letto, sono i primi ad accorrere per prestare i loro soccorsi. L’oscurità ci opprimeva, dalle 5 e 20 prima che facesse giorno al 28 dicembre, ci volevano due ore buone; non potevamo renderci conto esatto dell’ora precedente in cui ci eravamo svegliati, speravamo presto nell’alba, come per attaccarci ad
un’ancora di salvezza; ma ben si capisce, sepolti a quel modo i minuti erano eterni.
Mio marito stendeva le braccia per trovare sul comodino i fiammiferi, la candela e vedere così la nostra situazione, ma nulla più esisteva. Quel sepolcrale silenzio che faceva con- trasto con le abitudini precedenti di Messina, dove per ogni
minima scossa era un gridare, un urlare di tutto il popolino, che scappava per le strade invocando i Santi e la Madonna della Lettera, non sapevamo proprio spiegarlo; purtroppo non potevamo credere che in quel medesimo istante Messina era stata rasa al suolo ed 80.000 persone erano le vittime mietute, mentre noi stavamo invece tra i pochi fortunati.Mio marito intato faceva forza per cercare di divincolarsi da una trave in cui si sentiva impigliata una gamba e dopo varie fatiche vi riuscì, senza accorgersi però che si era ferito gravemente alla stessa gamba.
Svincolatosi, brancolando del buio trovò accanto al letto i pantaloni e la giacca, e l’infilò, poi si mise carponi sul letto tastando dove mi trovavo io con il bambino. Non potendomi muovere gli davo la voce per farmi sentire, il bambino quando ci sentiva gridare piangeva, indi verso stava zitto; ma per noi era un avvilimento peggiore, dubitando sempre che potesse morire soffocato; giacché me lo sentivo vicino in quella stessa posizione in cui l’avevo cinto col braccio, ma per metà sepolto come me. Finalmente cominciò ad albeggiare e ci potemmo rendere conto della situazione in cui ci trovavamo.
La casa da noi abitata, di eredità mia paterna, e che a me era stata assegnata come parte della mia dote, era antica e con tali sistemi fabbricata; si usava allora mettere nelle volte un così detto trave maestro di enorme grossezza e che reggeva tutti gli altri; tutto il terzo piano esistente sul nostro era crollato, facendo ben tre vittime, come poi sapemmo: nulla più si vedeva dalla nostra camera, meno il solo quadrato del tetto che era combinato come sotto un’alcova.Bisognava proprio credere al miracolo! Dal mio lato del letto vi era una porticina che dava in sala, ebbene questa porta che io la sera paurosa com’ero dei ladri, chiudevo sempre a chiave, fatalmente o miracolosamente non ebbe la girata mentre io ricordavo di avergliela data, di modo che dalla fortissima scossa essa aperta e fece sostegno alla trave, che ripeto miracolosamente fu trattenuta su di essa, mentre inverso ci avrebbe colpito in pieno petto senza darci neanche il tempo di gridare Maria. Fu così che formatasi quella piccola alcova di travi, tavole e canne ci preservò dall’essere completamente schiacciati.
Dopo aver fatto nella semioscurità questa prima triste con- statazione, mio marito, che si era già liberato come dissi delle macerie e stava presso di noi accovacciato, sentendo che io imploravo aiuto dalle vicine di casa che reputavo egoiste, sconoscendo la terribile sorte che su loro era piombata, cercò di rompere un po’ di quell’incannucciato per guardare in che stato si trovava la casa. Io non ricordo bene tutto, ma ho la visione perfetta di quel momento terribile: egli dopo aver guardato si fece d’un tratto irti i capelli e colla figura di quasi pazzo, terrorizzato esclamò: Che cerchi più gente? Da chi vuoi tu aiuto quando Messina più non esiste? È necessario spieghi per dar più chiara visione del terribile spettacolo, che la nostra camera era interna, accanto ad essa prospiciente sulla via Bisolari n.22 in prossimità del Duomo vi erano lo studio ed il salotto grandissimo, dirimpetto avevamo un’isoletta che dava da una parte sulla via Bisolari e dall’altra opposta in via Università, dove vi era la Chiesa del Carmine. Ebbene mio marito guardando non vide più stanze, più isola, più Chiesa, il solo quadro della suddetta Madonna era rimasto in fondo alla Chiesa completamente distrutta, e mio marito vedendolo ebbe un sussulto, comprese l’immenso sterminio e sentì venirsi meno. Intanto si continuava a gridare al soccorso, ma inutilmente, un bambino, Umberto Macrì, abitante al terzo piano su di noi, superstite della sventura, era rimasto sull’orlo di un precipizio e di tanto in tanto ci rispondeva dicendo che non si vedeva anima viva.
Io schiacciata com’ero soffrivo assai, e cominciavo già a rovesciare materia gialla; il povero mio marito mi domandava come mi sentivo, se avvertivo delle rotture interne e se potevo in quello stato resistere ancora qualche po’, ed io incoraggiandolo gli rispondevo che pel momento mi fidavo, ma non sapevo in quale stata stato mi sarei trovata dopo, qualora per molto tempo ci avessero lasciati e certamente non avrei potuto sopravvivere. Fu allora che egli ebbe uno scoraggiamento fortissimo tanto che prese dal suo comodino rimasto, la rivoltella e disse che se fra qualche ora non ci avessero salvati, lui avrebbe prima ucciso me ed il bambino e poi se stesso. M’impressionai molto di tale frase e lo pregai di riporre subito l’arma esortandolo ad avere coraggio e fede nella Vergine SS. Di Pompei che ci avrebbe fatto il miracolo.
Allora pensò di salvare da solo prima il bambino, infatti scavandolo con le sue mani riuscì ad estrarlo dalle macerie e per fortuna lo vedemmo illeso senza alcuna contusione. Si levò la sua giacca e poggiandola sulle macerie me lo sedette accanto. Il guaio era per me, che per quanti sforzi facessi aggrappandomi al letto con l’aiuto di mio marito non potevo assolutamente svincolarmi per l’enorme peso che mi schiacciava.Egli sarebbe potuto uscire da quelle rovine in cerca di qualche persona che l’aiutasse, ma non voleva lasciare me nel dubbio che continuando le scosse finisse per sprofondare quel po’ di pavimento che tratteneva il letto seppellendomi completamente. Si continuava a gridare e finalmente un frate del Carmine ci dette una voce promettendoci che sarebbe venuto a salvarci, ma invano l’aspettammo.
Più tempo passava, più cominciavamo a perdere la rassegnazione e la speranza, quando per nostra fortuna, continuando a gridare aiuto, un signore, Giuseppe Toscano, (ndr. poi divenuto parlamentare), passando da là riconobbe la voce di mio marito, che allora occupava a Messina il posto di giudice con le funzioni di Pretore, e sentendo le nostre tristi condizioni gli pro- mise che stesse tranquillo, che appena procurata una scala sarebbe venuto subito ad astrarci da quelle rovine. È facile immaginare come tale assicurazione ci rincuorò alquanto ed aspettammo da questo nostro salvatore la liberazione come le anime del Purgatorio. Dopo un po’ sentimmo chiamare: giudice, giudice, si affacci, mi aiuti che son qua per loro. Mio marito incoraggiato subito da me, che non vedevo altro scampo di salvezza, uscì per dare aiuto a questo bravo signore e quando dopo pochi minuti me lo vidi vicino, certa di essere salvata mi sentii svenire dalla commozione. L’estrarmi fu assai difficile: enormi macerie avevo addosso, ci siamo anche accorti che il grosso marmo del nostro settimanale mi stava ritto su un piede e per miracolo non me lo ruppe. Era altresì di ostacolo far largo sotto quell’alcova intrecciata di canne, travi e tavole come un gioco d’artifizio, fortunatamente arrivarono ad afferrare le punte del plaid e spingendolo con la maggior forza che avevano, lo sollevarono un po’, quel tanto che bastò affinché io, aggrappata all’altra parte del letto facessi ogni estremo sforzo per svincolarmi in qualsiasi modo. In camicia, più morta che viva, terrorizzata da quanto i miei occhi cominciavano a vedere, mi scese questo signor Toscano, mediante la scala da lui appoggiata su un precipizio, con pericolo della propria vita e là mi fece sedere sulle enormi macerie. Commossa l’abbracciai e tanto io che mio marito non sapevamo come ringraziarlo dovendo esclusivamente a lui la nostra salvezza.
Il bambino dalla stessa scala fu dato prima ad una pietosa donna che lo tenne in braccio finché io mi liberai. Ero quasi inebetita, mi sembrava di sognare vedendo quel terrificante spettacolo, dal profondo di quelle macerie sentivo giungere fin a me fiochi lamenti di persone sepolte, cui nessuno scampò alla morte, ed un brivido mi correva per le ossa; basti osservare che dalla nostra isola che contava una cin- quantina di persone ne usci- rono solamente sei, non parliamo poi di quell’isoletta dirimpetto, di cui restò viva la sola portiera.
Mio marito ricordando il mio voto pensò prima di scendere da quel precipizio, che più non rivedemmo, di prendere qualche oggetto di valore fra cui trovò gli orecchini, poi anche lui venne giù e come pazzi di terrore e di angoscia ci guardavamo esterrefatti senza saper decidere il da fare. Nulla più si riconosceva, tutto raso al suolo, non esisteva più pietra su pietra, pochissime persone in tutto una decina erano là scampati come noi e nello stesso atteggiamento. Mi accorsi dopo che mio marito aveva copioso dalla gamba ferita e che non trovando come stagnarlo lo legò con uno straccio qualsiasi imbrattato di polvere e ringraziammo Iddio se non gli venne il tetano, grazie anche alle cure amorose ed assidue avute dopo da un capitano medico. Io ebbi solo delle leggere contusioni e come già dissi scesi nuda, mio marito trovò solo un paio di scarpe
sue che mi fece mettere. Ricevetti dopo una sottana sgualcita ed una coperta bianca trovata là per terra, che una pietosa donna mi dette e mi servì per ricoprirmi un po’, anche al bambino fu dato uno straccio per avvolgerlo dalla pietà di qualcuno ed in questo stato, in così rigida stagione, c’incamminammo per andare in cerca della casa dei genitori di mio marito che furono pure tutti salvi. Non ci si raccapezzava più nulla, non potevamo più orientarci, montagne di macerie, feriti, cadaveri, scene strazianti si presentavano ai nostri occhi; mio marito camminava avanti col bambino in braccio, ed io appoggiata alla sua spalla, con gli occhi bassi per evitare di guardare un sì orribile spettacolo camminando a piedi quattro ore, nelle condizioni che vi sto descrivendo, arrivammo al villaggio Moleti dove il fratello di mio marito si era rifugiato con tutta la famiglia e là ci riunimmo. Ivi arrivati delle persone del paese ci hanno provveduto di qualche indumento e noi che fino alla sera precedente eravamo andati a letto con tutti i nostri comodi, attenti alla massima igiene, in quel momento ritrovavamo nudi, senza tetto, senza mobili, senza più nulla che ci ricordasse il nostro nido, e dovemmo adattarci ad indossare gli stracci che ci venivano dati dalla carità pubblica.
È vero, come tutti ci dicevano, che dovevamo confortarci pensando di essere scampati all’immane flagello e potevamo nella sventura reputarci fortunati ma è sempre ben doloroso il vedersi in un momento privi di tutto, proprietà di casa perduta, mobili, pianoforte, porzione di gioie, di argenteria, corredo di entrambi, tutto sparito e ciò alla distanza appena di due anni e mezzo dal nostro matrimonio. Della nostra roba non potemmo recuperare altro che il letto un comodino ed una sedia, che terremo sempre come ricordo. E mi sento ancora rabbrividire pensando che se un’ora prima non avessi io preso il bambino, sicuramente l’avremmo perduto e per il pensiero di perder lui al cominciare della scossa movendoci noi dal letto, saremmo piombati nel precipizio travolti dalle macerie. E’ proprio vero che i miracoli e noi per un cumulo di circostanze già cennate ne abbiamo avuto la prova più evidente.
I nostri figli, nipoti, pronipoti leggendo certamente tale tremenda sciagura, l’unica così fatale che siasi finora registrata negli annali della storia, crederanno vi sia dell’esagerazione, ma noi che disgraziatamente siamo stati spettatori e vittime di tale disastro, possiamo accertare che, mai come allora, le descrizioni dei giornali e delle persone rispondevano assai meno che al vero, ed anche le mie, naturalmente scritte assai male, non accennano che in minima parte le ore terribili passate e le tristi conseguenze patite, che purtroppo lasceranno sempre in noi un ricordo incancellabile.
Dopo venti giorni dal disastro io fui a Roma, in casa dei miei adorati genitori, che man mano mi provvidero di tutto, a cominciare dai fazzoletti. Là restai per otto mesi essendomi dopo gravemente ammalata, conseguenza di tutti i disagi e le sofferenze patite, e debbo la mia guarigione alle grandi cure avute in famiglia.
Appena ristabilita, prima di tornare in Sicilia, fui a Pompei a sciogliere il mio voto e là, nel Santuario tra le lacrime di commozione, non cessavo di ringraziare la Vergine SS. Del Rosario del miracolo fattoci.
Queste poche righe resteranno quale ricordo ai miei amatissimi figli dell’ora tragica del 28 dicembre 1908, ore 5,20.
Ultima modifica di
Halcedo il sabato 10 maggio 2014, 12:23, modificato 2 volte in totale.